Il MANF per trattare il Parkinson

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 06 giugno 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Nel 1817 James Parkinson caratterizzò per la prima volta con queste parole la malattia neurodegenerativa che porta il suo nome: “movimenti involontari con carattere di tremore, accompagnati da diminuzione della forza, non rilevabili nelle parti del corpo a riposo e nemmeno in quelle sostenute; una tendenza alla flessione in avanti del tronco e a passare da una deambulazione normale a un passo di corsa, con conservazione delle facoltà intellettive[1]. Mancano ancora due caratteri essenziali, ossia la rigidità cerea e il rallentamento motorio, cui si deve aggiungere una riduzione della forza muscolare. La presenza di scosse e altri movimenti rapidi e ripetuti, come quello del pollice opposto all’indice simile a quello dei cassieri che contano le banconote, associati a una parziale impotenza motoria, indussero nel 1841 Marshall Hall nel suo trattato Diseases and Derangements of the Nervous System a coniare l’espressione “paralisi agitante”, ripresa per oltre un secolo e mezzo, ma evidentemente erronea perché l’ipocinesia e la bradicinesia non sono dovute a paralisi. Nel secolo successivo, dopo le osservazioni di Pierre Marie che aveva notato la rarità dell’ammiccamento oculare[2], alla tetrade diagnostica costituita da ipo-bradicinesia, tremore a riposo, instabilità posturale e rigidità si è aggiunto il segno della perdita di espressione del viso. Nell’elenco dei segni pubblicato da Hoen e Yahr nel 1967, prima che si diffondesse l’uso terapeutico della L-DOPA, a quelli già menzionati si aggiunge l’andatura festinante.

In realtà, prima che si determini quella caratteristica della deambulazione col busto inclinato in avanti e i piccoli passi talora affrettati, che rendono evidente la diagnosi, si hanno per lungo tempo manifestazioni non marcate come una riduzione di efficienza di dettaglio della fonoarticolazione, associata a una lenta e progressiva perdita di tono prosodico, così da caratterizzare un linguaggio d’espressione monotono, poco scandito e infine disartrico. In questa fase il paziente può avvertire anche solo dolenzia al collo, alla schiena, alle spalle o alle anche e lievi sensazioni di resistenza articolare, che incrementerà nelle fasi successive determinando il classico fenomeno della ruota dentata: il movimento di escursione passiva del braccio sull’avambraccio non avviene per scorrimento fluido e continuo, e il medico sente dei passaggi a piccoli scatti come se nell’articolazione vi fosse una ruota dentata.

La difficoltà all’avvio dei movimenti, che può essere superata a lungo da metodi riabilitativi e dalla pratica del ballo di sala impiegato con successo da anni nella terapia motoria del Parkinson, col progredire della neurodegenerazione diventa una vera e propria acinesia.

A differenza del tremore cerebellare, che si accentua nel movimento intenzionale così che il sintomo dovuto a lesione del cervelletto comporta una grande difficoltà nel bere da un bicchiere colmo senza versarne il contenuto, il tremore parkinsoniano si accentua con le braccia ferme (tremore a riposo) e si rende evidente a una mano, che il paziente impara a fermare con l’altra. Il classico tremore con la frequenza di 4 scosse al secondo, anche se caratterizzante, non si rileva in circa la metà dei pazienti. L’asimmetria per tremore e rigidità è una costante, dovuta al fatto che un lato del corpo è interessato prima dell’altro dagli effetti della neurodegenerazione. Il tremore rimane asimmetrico anche nelle fasi avanzate della malattia. Un secondo tipo di tremore, meno evidente e a scosse rapide e lievemente irregolari (7-8/sec.), quando presente sembra persistere durante il movimento volontario.

Si rimanda ai trattati di neurologia per una dettagliata descrizione della sintomatologia, dei rilievi EMG, EEG e di tutta la semeiotica strumentale, qui si vuole ricordare che le manifestazioni più evidenti, che consentono diagnosi alla semplice osservazione, si sviluppano quando oltre il 50% dei neuroni dopaminergici della parte compatta della sostanza nera mesencefalica sono andati distrutti, con la perdita del 75% della dopamina striatale fisiologica.

La patologia del Parkinson, un tempo focalizzata esclusivamente sulla perdita dei neuroni dopaminergici della pars compacta della substantia nigra di Soemmering[3], oggi rende conto dell’interessamento selettivo di vari tipi di popolazioni neuroniche che diventano disfunzionali e poi muoiono, in genere identificabili per la presenza di inclusioni eosinofile citoplasmatiche (corpi di Lewy)[4], inizialmente costituite da cellule nervose pigmentate della parte compatta della sostanza nera, del locus coeruleus e del nucleo motore dorsale del vago, ma poi anche da neuroni del bulbo olfattivo, di altri nuclei del mesencefalo e del sistema nervoso del tratto gastrointestinale. L’interessamento di queste ultime tre strutture può precedere quello della sostanza nera e decorrere molto lentamente, costituendo gli stadi non-motori della malattia di Parkinson caratterizzati, talvolta, da disturbi dell’olfatto fino all’anosmia, depressione psichica, alterazioni del sonno e disfunzioni gastro-enteriche[5].

Le analisi patologiche hanno consentito di comprendere l’entità della riduzione parkinsoniana delle cellule contenenti melanina del nucleo descritto da Soemmering e negli altri nuclei interessati. Nella sostanza nera, da un numero massimo di 425.000 neuroni in età giovanile si passa a circa 200.000 all’età di 80 anni, secondo McGeer e colleghi, nell’invecchiamento fisiologico, in cui si ha una corrispondente riduzione della tirosina-idrossilasi[6]; nella malattia di Parkinson, secondo Pakkenberg e colleghi, si passa da un totale di 550.000 cellule pigmentate a 187.000.

La notevole importanza della perdita delle sinapsi nigrostriatali dopaminergiche per la morte dei neuroni della sostanza nera, non può essere equiparata ad un mero deficit di dopamina, in quanto causa notevoli alterazioni morfo-funzionali nei neuroni riceventi e, in particolare, una massiccia perdita di spine dendritiche nei neuroni dello striato.

Molti aspetti clinici si comprendono meglio grazie al rilevo dettagliato dei danni patologici prodotti dal processo neurodegenerativo, che interessa oltre i nuclei già menzionati, la formazione reticolare mesencefalica, i neuroni riceventi di talamo e strutture limbiche, nuclei pigmentati del bulbo, putamen, pallido, caudato e sostanza innominata; invece, l’interessamento di numerose altre strutture, compresa la corteccia nelle fasi avanzate – che spiegherebbe lo sviluppo di demenza in una parte dei casi – è incostante e differisce molto nelle casistiche dei vari autori.

Gli aspetti genetici della malattia di Parkinson sono particolarmente interessanti perché in passato, sulla base di studi su gemelli monozigoti che apparentemente mostravano una bassa concordanza, alcuni autori avevano concluso per una scarsa rilevanza dei fattori genetici, se non in una ristretta casistica di forme familiari. Ma, analizzando il metabolismo della dopamina mediante PET scanning[7], è risultato evidente che il 75% dei gemelli risultati asintomatici presentava già disfunzione dei nuclei del corpo striato, con segni che nei gemelli dizigoti erano molto rari.

Attualmente tutte le trattazioni neuropatologiche, neurochimiche e neurologiche della malattia di Parkinson illustrano le nozioni neurogenetiche acquisite in decenni di studi e descrivono le forme familiari, distinte in forme autosomiche dominanti e forme autosomiche recessive, e forme idiopatiche o sporadiche per le quali sono indicate le varianti alleliche principali che sembrano costituire concause della malattia.

Forme autosomiche dominanti di Parkinson. La prima mutazione identificata è localizzata nel gene SNCA che codifica la proteina α-sinucleina, il principale costituente di uno dei contrassegni patologici della malattia. Le rare mutazioni puntiformi in SNCA causano una forma ad esordio precoce, spesso caratterizzata da disfunzione cognitiva. Sono state descritte e studiate in un ristretto numero di famiglie tre mutazioni missense: A53T, A30P e E46K. Duplicazioni e triplicazioni della regione contenente SNCA ugualmente causano forme autosomiche dominanti della neurodegenerazione. La causa più comune di malattia di Parkinson causata da un singolo gene è dovuta a mutazioni – sempre ereditate come un carattere mendeliano autosomico dominante – nel gene LRRK2 (a.k.a. PARK8 sul cromosoma 12q12, codificanti). I polimorfismi di SNCA e LRRK2 costituiscono fattori di rischio per le forme genetiche complesse.

Forme autosomiche recessive di Parkinson. Le mutazioni più studiate sono localizzate in tre geni: PARK2, PINK1 e PARK7. Le forme sono clinicamente espresse con la classica sintomatologia, e si distinguono solo per un inizio precoce. A differenza delle forme dominanti più sopra menzionate, le autosomiche recessive probabilmente consistono in una perdita di funzione molecolare.

Altre forme ad eredità mendeliana. Studi recenti hanno indicato numerosi altri geni quali causa di forme familiari della malattia di Parkinson, per i quali si rimanda alle trattazioni specialistiche.

Geni di suscettibilità e contributo genetico alle forme idiopatiche. In questo campo di studi, in rapida evoluzione da quando si impiegano le analisi di screening GWAS, è costantemente prodotta una notevole quantità di dati. Oltre ad alleli di suscettibilità dei geni che già causano le forme ad ereditarietà mendeliana, quali SNCA e LRRK2, vi sono poi MAPT, un locus associato a GBA e un locus prossimo ai geni GAK e DGKQ. Ma la lista dei geni candidati si allunga costantemente e fornisce un enorme quantità di materiale per il lavoro di interpretazione nella chiave della biologia molecolare, della fisiopatologia e della patogenesi.

Quanto fin qui esposto aiuta anche il lettore che non abbia una specifica formazione clinica a inquadrare il problema della malattia di Parkinson, per la quale non si dispone ancora di una terapia modificante la malattia, ma solo di strategie che consentono inizialmente di eliminare i sintomi e poi solo ridurli, senza speranza di arrestare la neurodegenerazione e ottenere la guarigione. In tali condizioni, è opportuno il vaglio di ogni nuova possibilità di migliorare la qualità della vita con mezzi terapeutici, sia pure palliativi, che possano integrare o in parte sostituire i presidi di trattamento attuali.

Chun Yang e Yan Gao propongono la sperimentazione terapeutica di un fattore neurotrofico dalla struttura chimica particolare, estratto dalle cellule astrogliali del mesencefalo, il MANF.

 (Chun Yang e Yan Gao, Mesencephalic Astrocyte-Derived Neurotrophic Factor: A Treatment Option for Parkinson’s Disease. Frontiers in Bioscience – 25: 1718-1731 (1715-1728), June 1, 2020)

 La provenienza degli autori è la seguente: Department of Anatomy and Histology & Embryology, Capital Medical University No. 10, Xitoutiao, Youanmanwai, Fengtai, Beijin (Cina).

Il trattamento standard con L-DOPA, associata a un inibitore periferico delle decarbossilasi (carbidopa o benserazide) che non entra nel sistema nervoso centrale, rimane il principale riferimento farmacologico, generalmente con notevole efficacia per anni dopo la diagnosi. Naturalmente il paziente va studiato attentamente e monitorato per adattare man mano la dose e i tempi di somministrazione della L-DOPA alla risposta individuale: solo con questa costante sorveglianza si ottengono in genere i migliori risultati.

Gli agonisti dopaminergici, anche se in assoluto sono meno potenti della L-DOPA, possono sostituirla all’inizio del trattamento ed affiancarla nelle fasi più avanzate, anche se nella senescenza avanzata e a dosi elevate presentano effetti collaterali motori e cognitivi maggiori di quelli del precursore della dopamina. Tra gli agonisti dopaminergici, che agiscono direttamente sui recettori D2 della dopamina, sono prescritti i derivati sintetici dell’ergot bromocriptina e lisuride, ma oggi sono spesso preferiti, anche se a volte si rivelano meno efficaci, il ropinirolo e il pramipexolo, perché danno meno effetti collaterali ergotaminici[8].

I farmaci anticolinergici, in uso soprattutto per gli intolleranti della L-DOPA, nelle fasi iniziali quando il tremore è la manifestazione clinica predominante o esclusiva, e nel trattamento del tremore nei pazienti giovani, attualmente sono poco prescritti.

L’antivirale amantadina, che sembra agire antagonizzando gli NMDA e favorendo il rilascio di depositi di dopamina, presenta effetti su tremore, ipocinesia e sintomi posturali, ma con un’efficacia neanche lontanamente accostabile a quella della L-DOPA e con una lunga lista di effetti collaterali, inclusi aggravamento di glaucoma e scompenso cardiaco congestizio.

Dopo l’impiego pionieristico da parte di Laitinen, Leksell e altri, la stimolazione cerebrale profonda (DBS, da deep brain stimulation), con elettrodi impiantati mediante controllo stereotassico nel nucleo subtalamico o nel segmento interno del globo pallido, è impiegata sempre più spesso con discreti risultati. Il candidato ideale per la DBS è il paziente che non risponde più in modo soddisfacente alla terapia con L-DOPA ed è profondamente disturbato dalla discinesia divenuta resistente al trattamento[9]. Uno studio randomizzato in doppio cieco condotto da Deuschl e colleghi ha dimostrato efficacia della DBS nell’indurre la regressione delle manifestazioni cliniche e un complessivo miglioramento della qualità della vita[10].

Anche per l’infusione cerebrale di precursori neuronici (cosiddetto “trapianto di cellule staminali”), nonostante la sperimentazione sia in corso da molti anni, fin dal 2003, quando Stuart Butler, direttore del Burden Institute di Bristol, ha riferito direttamente al nostro presidente i risultati del suo primo campione, non ha finora fornito risultati omogeneamente positivi e duraturi al punto da generalizzarne l’impiego.

Come si diceva più sopra, non disponendo ancora di una terapia in grado di arrestare il processo patologico neurodegenerativo, è opportuno vagliare ogni nuova possibilità per integrare gli strumenti attualmente in uso al fine di migliorare la qualità della vita del paziente.

L’idea di impiegare fattori neurotrofici non è certo nuova e già tre mesi dopo la fondazione della nostra società scientifica recensimmo uno studio sulla sperimentazione di un fattore neurotrofico derivato da cellule della glia, come nel caso del lavoro qui recensito[11].

Consideriamo qui in sintesi la proposta di Yang e Gao.

Il MANF (mesencephalic astrocyte-derived neurotrophic factor) è membro di famiglia di proteine non convenzionali ed evoluzionisticamente conservate, con una struttura molecolare unica e capace di rilevare e recuperare neuroni apoptotici. La proteina MANF si è mostrata in grado di accrescere selettivamente, in vitro, la sopravvivenza e lo sviluppo di nuovi prolungamenti in neuroni dopaminergici della sostanza nera mesencefalica. Numerose prove sperimentali hanno dimostrato che MANF può proteggere e riparare neuroni che sintetizzano e rilasciano dopamina in modelli animali di malattia di Parkinson.

Il MANF è localizzato nel lume del reticolo endoplasmico (ER) e interviene nella regolazione delle risposte allo stress e alle proteine alterate nella conformazione. Il suo dominio C-terminale è un omologo completo del dominio SAP di Ku70 che ha funzione anti-apoptotica.

Yang e Gao descrivono la struttura molecolare e l’espressione tessutale di MANF e, poi, propongono una sintesi degli studi preclinici in cui è stato impiegato con successo il fattore neurotrofico astrocitario nel trattamento della patologia sperimentale. Infine, discutono in dettaglio il meccanismo d’azione su cui si baserebbe l’impiego nella malattia umana.

A nostro avviso, i dati proposti sono incoraggianti per il prosieguo della sperimentazione.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-06 giugno 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 



[1] Note e Notizie 02-07-11 Origine delle oscillazioni beta patologiche nel Parkinson.

[2] In realtà, oggi sappiamo che si tratta di un segno precoce: la frequenza fisiologica di 12-20/min. si riduce abbastanza presto nella malattia di Parkinson a 5-10/min. L’associazione con un lieve aumento della rima palpebrale e l’ipomimia determina l’effetto “maschera” del volto, colto come cambiamento dalle persone affettivamente più vicine.

[3] Soemmering definì inizialmente questo aggregato di neuroni pigmentati del mesencefalo locus niger; in Italia descritto col nome di sostanza nera, è stato denominato in latino substantia nigra dall’International Anatomical Nomenclature Committeee (IANC).

[4] I “corpi di Lewy” e i “neuriti di Lewy” nel 1997 si scoprì per immunoreattività che sono costituiti da α-sinucleina (sinucleinopatia); in particolare, per la forma ereditaria dominante causata dalla mutazione missense A53T in SNCA.

[5] Di grande attualità la componente gastroenterologica nella patogenesi della malattia, così come gli studi sulla diffusione prionica dell’alfa-sinucleina mutata.

[6] La tirosina idrossilasi costituisce l’enzima della tappa limitante per la sintesi di dopamina.

[7] La combinazione di una tecnica di Medicina Nucleare (PET, ossia tomografia a emissione di positroni) con l’analisi biochimica.

[8] Si ricorda che la pergolide, ancora inclusa in molte trattazioni di terapia del Parkinson, non si prescrive più per il rischio di danno valvolare cardiaco ad alte dosi. Lo stesso vale per la cabergolina.

[9] Gli effetti maggiormente disturbanti della L-DOPA, che si producono dopo anni di trattamento con l’avanzare della neurodegenerazione, consistono nella riduzione in efficacia “alla fine della dose” (da 2 a 4 ore) e nell’induzione di movimenti discinetici involontari quali coreo-atetosi degli arti e del tronco, impossibilità di stasi motoria, ondeggiamento della testa, discinesia linguo-labiale, digrignare dei denti, blefarospasmo, ecc. Il declino di efficacia della L-DOPA, prima di arrivare alla DBS, può essere trattato con un dosaggio più frequente, con l’aggiunta di un agonista dopaminergico (ropinirolo, pramipexolo) o di un inibitore delle COMT (entacapone).

[10] Deuschl G. et al., A randomized trial of deep-brain stimulation for Parkinson’s disease. New England Journal of Medicine 355: 896, 2006.

[11] Note e Notizie 12-04-03 Una nuova terapia per la malattia di Parkinson – Diretta infusione di un fattore neurotrofico.